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TFR per andare in pensione a 64 anni: svolta in arrivo?

TFR per andare in pensione a 64 anni: svolta in arrivo?
Photo by Alexas_Fotos – Pixabay
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Le imprese temono ripercussioni: il TFR è anche una risorsa finanziaria e vincolarlo alla pensione può creare squilibri.

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Il cantiere della previdenza in Italia non conosce tregua. Con la prossima legge di Bilancio in fase di costruzione, i partiti al governo tornano a confrontarsi sui temi più spinosi. Tra questi, emerge una proposta targata Lega che potrebbe cambiare le carte in tavola: consentire ai lavoratori dipendenti di andare in pensione a 64 anni utilizzando il TFR, il trattamento di fine rapporto, come integrazione dell’assegno mensile. A lavorarci sarebbe il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon, volto noto del Carroccio.

TFR per anticipare il pensionamento

In Italia, meno di 10 milioni di persone aderiscono alla previdenza complementare, un dato modesto rispetto ai 24 milioni di occupati e ancor più esiguo se rapportato alla platea complessiva di persone in età lavorativa. Incentivare l’adesione ai fondi pensione resta una priorità, ma il vero ostacolo non è la scarsa informazione, bensì la difficoltà, per molti, di mettere da parte risparmi a causa di stipendi troppo bassi.
Allo stesso tempo, la rigidità del sistema — con un’uscita prevista a 67 anni e destinata a salire — rende sempre più urgente la ricerca di soluzioni flessibili. Da qui l’idea di Durigon: permettere il ritiro a 64 anni, a condizione di rispettare alcuni requisiti, tra cui almeno 25 anni di contributi versati (30 dal 2030), appartenenza al sistema contributivo puro e assegno mensile superiore a tre volte l’assegno sociale (circa 1.616 euro nel 2025).
Il piano prevede di estendere la possibilità anche ai lavoratori con sistema misto, cioè quelli con contributi versati prima del 1996. Il TFR, in questo scenario, diventerebbe uno strumento per raggiungere la soglia minima di pensione, aggiungendosi al montante contributivo.

I dubbi sulla rinuncia al TFR

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Nel concreto, il lavoratore rinuncerebbe a ricevere il TFR alla fine del rapporto di lavoro, scegliendo invece di trasformarlo in una rendita aggiuntiva da sommare alla pensione. Una possibilità che potrebbe attrarre molti, soprattutto tra chi fatica a raggiungere i parametri previsti per l’anticipo. Ma è davvero una soluzione sostenibile?
Il TFR rappresenta una parte differita della retribuzione, una sorta di mensilità che il datore accantona ogni anno. Per le imprese con oltre 50 dipendenti, l’obbligo di versamento all’INPS è in vigore da tempo. Per le altre, resta facoltativo: il lavoratore può decidere se lasciarlo in azienda o destinarlo a un fondo pensione. Ironia della sorte, fu proprio la Lega a opporsi a questa norma, bollandola come un “tentativo di esproprio” a danno di lavoratori e imprese.

Un equilibrio fragile tra pensioni e retribuzioni

Il TFR non è solo una forma di tutela per il lavoratore, ma anche una risorsa di liquidità per le aziende, che lo considerano una voce attiva di bilancio. Legarlo al sistema pensionistico rischia di distogliere l’attenzione dal vero nodo: la bassa retribuzione che limita l’accesso alla previdenza integrativa.
L’idea che i lavoratori possano “finanziarsi” da soli il pensionamento anticipato, attingendo a ciò che già spetta loro, appare come un’illusione più che una strategia. In passato, il legislatore ha già provato a spingere in questa direzione, introducendo il meccanismo del silenzio-assenso per il trasferimento del TFR all’INPS. E il TFS, l’equivalente nel pubblico impiego, è stato oggetto di dilazioni per gli importi superiori a 50.000 euro. Il messaggio implicito sembra essere sempre lo stesso: per anticipare la pensione, il lavoratore dovrà fare affidamento sulle sue stesse risorse. Ma così si rischia solo di mascherare i problemi reali, senza offrire soluzioni strutturali.