Nel settore pubblico solo superando i 41 anni di contributi si può raggiungere il 70% dell’ultima retribuzione percepita.

Ogni lavoratore, pensando al proprio futuro da pensionato, si interroga sul tenore di vita che potrà permettersi. E la risposta, purtroppo, è raramente rassicurante: la pensione difficilmente eguaglia l’ultimo stipendio. Con il passare degli anni, infatti, le retribuzioni crescono grazie a promozioni, scatti di anzianità e premi aziendali. Elementi che fanno lievitare l’ultimo reddito percepito, rendendo quasi impossibile che l’assegno pensionistico lo raggiunga o superi.
Il sistema contributivo oggi vigente non aiuta. A differenza del vecchio metodo retributivo, che teneva conto solo degli ultimi stipendi (spesso i più alti), oggi la pensione è il frutto diretto di quanto si è versato durante tutta la carriera lavorativa. Più contributi si accumulano, più cresce l’assegno finale. Ma anche così, il divario resta.
Cosa dice lo studio: lavorare di più per ridurre la perdita
Lo studio pubblicato il 13 settembre dalla Direzione Nazionale ENASC-UNSIC prende in esame alcuni casi concreti. Ad esempio, un lavoratore dipendente del settore privato che ha iniziato la carriera a 25 anni e oggi ne ha 40, andando in pensione a 69 anni (oltre l’attuale età pensionabile di 67 anni), potrebbe ambire a una pensione pari al 78% dell’ultimo stipendio. Quattro anni di lavoro in più potrebbero tradursi in un incremento dell’assegno di circa 4.000 euro annui.
Si tratta di un beneficio tutt’altro che trascurabile, ma che impone un allungamento della carriera ben oltre i 40 anni di contribuzione. Un traguardo difficile da raggiungere per molti, ma che si rivela decisivo per mantenere un reddito adeguato una volta smessa la divisa da lavoratore.
Partite IVA e dipendenti: un confronto impietoso
Il confronto tra lavoratori dipendenti e autonomi mette in luce differenze sostanziali. Un libero professionista con Partita Iva, 61 anni d’età e un reddito annuo di 18.000 euro, andando in pensione nel 2032, potrebbe ricevere un assegno pari solo al 31% del suo ultimo reddito. Una percentuale che rischia di compromettere seriamente la stabilità economica nella terza età.
Diverso il caso di una lavoratrice di 57 anni che, raggiungendo i quasi 40 anni di carriera, potrebbe ottenere una pensione pari al 78% dell’ultimo reddito, ma solo se rientra nel sistema retributivo. Se invece è soggetta interamente al metodo contributivo, la differenza mensile rispetto allo stipendio potrebbe superare i 600 euro.

Più contributi, meno distanza tra stipendio e pensione
Lo studio lo conferma: la chiave per ridurre il gap tra stipendio e pensione è tutta nei contributi versati. Nel settore pubblico, ad esempio, solo superando i 41 anni di servizio si può sperare in una pensione pari al 70% o più dell’ultima retribuzione. Con 30 anni di contributi, invece, la percentuale scende drasticamente al 48%.
C’è però una nota positiva per chi ricopre ruoli dirigenziali: i manager con oltre 42 anni di contribuzione possono arrivare all’82% dell’ultimo stipendio, e chi supera i 44 anni può addirittura ottenere una pensione superiore al 90% del proprio reddito finale. Un traguardo che, seppur riservato a pochi, dimostra quanto il tempo e la costanza nel versamento contribuiscano in modo decisivo.