La riforma darebbe ai giudici più libertà per valutare l’indennizzo, considerando anzianità e condizioni personali del lavoratore.

Nel weekend dell’8 e 9 giugno si voterà su un tema destinato a ridefinire i confini del lavoro in Italia. Il referendum mira a correggere una profonda disparità tra i lavoratori delle grandi imprese e quelli impiegati nelle aziende con meno di 16 dipendenti, soprattutto in tema di risarcimenti per licenziamento ingiustificato.
Attualmente, chi viene allontanato da una piccola impresa senza giusta causa può ricevere al massimo sei mensilità di stipendio. Per fare un esempio: un lavoratore con dieci anni di anzianità e uno stipendio mensile di 1.500 euro si troverebbe con un indennizzo non superiore a 9.000 euro. Al contrario, in una grande azienda, lo stesso profilo può accedere a risarcimenti anche quattro volte superiori. Una disparità che molti considerano ormai difficile da giustificare.
Cosa prevede il referendum: fine del tetto massimo
Se il SÌ dovesse prevalere, cambierebbe uno dei cardini del sistema attuale: il limite massimo ai risarcimenti per licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese verrebbe abolito. I giudici avrebbero maggiore libertà di valutazione, potendo considerare una serie di elementi specifici: anzianità di servizio, difficoltà di reinserimento lavorativo, età, condizione familiare e contesto personale del lavoratore.
Il cambiamento porterebbe a un risarcimento più aderente alla realtà individuale, riducendo il divario tra chi lavora in una multinazionale e chi in una bottega di quartiere. Si affermerebbe così un principio di equità trasversale, non più legato alla forza economica del datore di lavoro ma al danno reale subito.
Un tema di giustizia e non solo di numeri
Il cuore della questione è più ampio della sola dimensione economica. È giusto che il diritto a una protezione effettiva dal licenziamento dipenda dalla dimensione dell’azienda? La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 183 del 2022, ha già indicato la strada: una tutela così diseguale viola la dignità del lavoratore e mina il principio di uguaglianza.
Il referendum si colloca in questo solco, cercando di superare un impianto normativo giudicato da molti ormai obsoleto. Tuttavia, le piccole imprese sollevano obiezioni importanti: temono che l’eliminazione del tetto possa esporle a contenziosi onerosi, compromettendo la loro sostenibilità finanziaria e frenando nuove assunzioni a tempo indeterminato.

La transizione e il bilanciamento delle esigenze
Un punto fondamentale per attenuare l’impatto è la natura non retroattiva della riforma proposta. Solo i licenziamenti avvenuti dopo l’eventuale entrata in vigore delle nuove regole sarebbero soggetti al nuovo regime. Questo permette una transizione più fluida e protegge le aziende da ricadute improvvise e retroattive.
Alla base della proposta referendaria c’è l’idea che il diritto al lavoro, e alla sua protezione, debba valere per tutti allo stesso modo. L’esito del voto potrebbe segnare un passo decisivo verso un sistema più coerente, in cui la dignità del lavoratore non sia più subordinata alla grandezza dell’impresa. Un cambiamento che, al di là delle logiche aziendali, rimette al centro la persona.