Scopri perché i datori di lavoro preferiscono le dimissioni volontarie ai licenziamenti per evitare costi aggiuntivi.

Nel complesso equilibrio delle relazioni lavorative, i contrasti di interesse tra dipendenti e datori di lavoro spuntano come margherite in un prato di primavera. In un rapporto di lavoro subordinato, nonostante si possa immaginare un’armonia d’intenti, nella realtà spesso emergono tensioni, specialmente nei momenti cruciali come il licenziamento o le dimissioni.
Nel cuore delle interruzioni lavorative, i conflitti si fanno strada con facilità. Anche quando il desiderio di terminare un rapporto è reciproco, il cammino può risultare accidentato. La questione è che ciò che è vantaggioso per un lavoratore non sempre si sposa con gli interessi del datore di lavoro.
Ecco che la domanda di un lettore, colma di curiosità e sottile preoccupazione, ci giunge come una lettera in bottiglia affidata al mare: “Mi trovo in una situazione complicata con il mio datore di lavoro, che pare non abbia più bisogno di me. Sebbene anch’io sia stanco di questa situazione, non sono ancora pronto a chiudere la porta; loro, però, mi spingono verso le dimissioni che so non mi consentirebbero di accedere alla disoccupazione. Perché vogliono che io firmi le dimissioni invece di seguire la procedura di licenziamento?”
Gli incentivi del datore di lavoro
Nel panorama lavorativo, i vantaggi per i dipendenti e i datori di lavoro divergono in un intreccio complesso di normative e incentivi economici. I lavoratori, naturalmente, preferiscono essere licenziati. Questa scelta assicura loro il diritto alla Naspi, un indispensabile sussidio di disoccupazione fornito dall’INPS, salvaguardando chi perde il lavoro involontariamente. Al contrario, il datore di lavoro ha interesse che i dipendenti optino per le dimissioni, evitando così il pagamento del cosiddetto “ticket licenziamento”.
Ma che cos’è questo ticket licenziamento? È un onere pecuniario tutto sul groppone del datore di lavoro, calcolato in modo preciso e definitivo al termine del rapporto di lavoro. Tale ticket segue parametri legati all’anzianità di servizio e può risultare oneroso, soprattutto per quei dipendenti con lunga esperienza nell’azienda.
Il costo del licenziamento e il ticket da pagare
Nel 2024, per esempio, i datori di lavoro devono fronteggiare costi variabili, che possono arrivare fino a 1.916,01 euro per rapporti prolungati. Si tratta di un contributo di 52,97 euro mensili per ciascun anno di anzianità, versato alla prima scadenza utile. Questo onere, calcolato al 41% del massimale Naspi, incide particolarmente quando il dipendente ha accumulato diversi anni di servizio nell’azienda.
Da qui scaturisce la comprensibile preferenza del datore di lavoro per le dimissioni volontarie del dipendente. Sebbene tali incentivi possano sembrare puramente economici, nascondono una vera e propria strategia per ridurre i costi aziendali. È un meccanismo che, ironicamente, si innesca anche quando è l’azienda a voler sciogliere il legame lavorativo, preferendo dunque evitare il peso economico del licenziamento.

Le alternative possibili e le soluzioni idealistiche
Ora, ci si potrebbe chiedere: esiste una strada che equilibri equità e convenienza? I sogni di un mondo del lavoro armonioso, in cui entrambe le parti collaborano per un interesse comune, sembrano spesso utopie in un contesto dove predominano strategie difensive e accuse reciproche.
Tuttavia, una via di uscita implica un dialogo onesto e libero da fraintendimenti. Creare un piano d’azione condiviso, che contempli soluzioni alternative come trattative per una risoluzione consensuale, potrebbe rappresentare una scelta più positiva. In questa prospettiva, tutte le voci in gioco verrebbero ascoltate, e gli obiettivi sarebbero perseguiti attraverso compromessi vantaggiosi per entrambe le parti.
Un tale approccio non solo allevierebbe gli attriti, ma potrebbe anche favorire un ambiente lavorativo più cooperativo e armonioso, dove le divergenze si trasformano in opportunità.