Il testo della manovra di bilancio 2026 è al vaglio del Parlamento e si è già attirato le critiche accese dei sindacati. Al centro delle contestazioni c’è la riduzione dell’IRPEF, il cui impatto reale viene giudicato insufficiente, con vantaggi economici equiparabili a un semplice caffè quotidiano.

La Manovra di Bilancio 2026 entra nel vivo del dibattito politico ed economico italiano, accendendo lo scontro tra governo e sindacati. Al centro della contesa c’è il nuovo intervento sull’IRPEF, che promette un alleggerimento fiscale ma, secondo le principali sigle sindacali, rischia di tradursi in un beneficio minimo per i lavoratori. Mentre l’esecutivo rivendica la misura come un passo verso una maggiore equità e semplificazione del sistema tributario, le organizzazioni dei lavoratori denunciano una riforma insufficiente, incapace di contrastare l’erosione del potere d’acquisto e il persistente drenaggio fiscale che grava sulle famiglie italiane.
Trasformazione degli scaglioni IRPEF: da cinque a tre
Negli anni recenti, la struttura degli scaglioni IRPEF è notevolmente evoluta per semplificare il sistema fiscale italiano. Inizialmente, nel 2022, il passaggio da cinque a quattro scaglioni ha comportato una riduzione progressiva delle aliquote. In particolare, si è partiti dal 23% fino a 15.000 euro, scalando fino al 43% oltre 50.000 euro. Questa modifica ha avuto una conferma per il 2023, ma già nel 2024 si è concretizzata una nuova riduzione a tre scaglioni: 23% fino a 28.000 euro, 35% fino a 50.000 euro, e 43% oltre questa soglia. Scopo di tali cambiamenti è stato alleggerire il carico fiscale, soprattutto per i redditi medio-bassi, nella speranza di stimolare una crescita dei consumi.
Manovra 2026 e la riduzione del secondo scaglione

La proposta di bilancio per il 2026 prevede un ulteriore adattamento della struttura IRPEF. Il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno che abbassa di due punti percentuali il secondo scaglione, portando l’aliquota dal 35% al 33% per i redditi che superano i 28.000 euro ma restano al di sotto dei 50.000 euro. Secondo il governo, questa misura dovrebbe migliorare la progressività fiscale e incentivare la spesa dei consumatori. Tuttavia, i sindacati non nascondono il loro disappunto, sostenendo che tali benefici sono, nella pratica, marginali. L’impatto, infatti, si traduce in un risparmio annuale che può variare da zero a circa 440 euro, lasciando molti contribuenti con un vantaggio simbolico di pochi euro al mese.
Critiche sindacali e drenaggio fiscale
La principale preoccupazione dei sindacati riguarda l’effettiva incidenza delle nuove aliquote sul potere d’acquisto delle famiglie italiane. In un contesto economico segnato da un’inflazione percepita in crescita e da un aumento generale dei costi di vita, il piccolo beneficio fiscale offerto dal taglio dell’IRPEF risulta inadeguato di fronte al drenaggio fiscale. Quest’ultimo è un fenomeno che si verifica quando l’inflazione erode il valore reale dei redditi, senza un parallelo aggiornamento delle aliquote fiscali, generando una perdita significativa di potere d’acquisto. I sindacati auspicano riforme più sostanziali e strutturate, capaci di affrontare e risolvere le disparità fiscali in Italia.
Una riforma ancora incompleta
Nonostante l’apparente modernizzazione, il dibattito sul sistema IRPEF rimane acceso. Le modifiche proposte non sembrano incidere sui problemi di fondo, quali l’eccessiva pressione fiscale generale e la mancanza di un sistema che rispecchi fedelmente la distribuzione reale dei redditi nel Paese. Il governo continua a difendere la manovra come un passo verso un fisco più equo e moderno, mentre i sindacati spingono per interventi più radicali, che possano realmente sostenere gli strati più vulnerabili della popolazione.

